Per quanto esistano dei dubbi di interpretazione su alcuni aspetti riguardanti la classificazione di uno scarto di lavorazione (sottoprodotto o rifiuto), eludere la normativa sui rifiuti (art. 184 del d.lgs. n. 152/2006) non è affatto consigliabile, tenendo conto delle responsabilità penali e pecuniarie che incombono sui trasgressori.
Sono numerosi i casi in cui si pone l’incertezza sulla classificazione di un materiale. Ad esempio, per la distinzione tra rifiuto e sottoprodotto di origine animale (SOA), le diverse fonti legislative ed istituzionali differiscono e a volte si contraddicono.
Il fatto che venga o meno pagato un corrispettivo per il ritiro del materiale, ancorché oneroso per il soggetto che lo ritira, non costituisce un elemento discriminante rispetto alla qualifica di sottoprodotto o di rifiuto.
Per ottenere la qualifica di sottoprodotto, l’esperienza insegna che la principale discriminante è la qualifica del destinatario.
Se il destinatario è un’azienda che non opera nel settore del recupero e del riciclo, è agevole sostenere – a fronte di un’eventuale contestazione – che il materiale ceduto sia un sottoprodotto.
Proprio per questo le aziende che dispongono di sottoprodotti, preferiscono cederli a un soggetto che non opera nel settore del recupero e del riciclo, per evitare possibili contestazioni.
Vi è poi il caso dei rifiuti che, ceduti a soggetti autorizzati, cessano di essere tali quando siano sottoposti a un’operazione di recupero, in quanto esiste un mercato o una domanda per tali sostanze od oggetti.